La sua famiglia era ben consapevole della mia sterilità, eppure lei desiderava ardentemente il matrimonio. La prima notte di nozze, quando sollevò le coperte, la verità mi colpì come un fulmine a ciel sereno.
Mi chiamo Elena e quest’anno compio trent’anni. Per molto tempo ho pensato che sarei rimasta sola per sempre. Tre anni fa, dopo l’intervento, il medico annunciò che non avrei mai potuto avere figli.
La notizia mi sconvolse profondamente e mi gettò nella disperazione. Il mio fidanzato, con cui ero stata per cinque anni, non mi parlò per tutta la notte; il giorno dopo mi mandò solo un breve messaggio: “Mi dispiace. Lasciamoci”.
Da quel momento in poi, smisi di sognare un abito da sposa. Finché non arrivò Rohan.
Ha sette anni più di me, il nuovo capo del reparto in cui lavoravo. Educato, allegro, con occhi che sembravano sempre sorridenti. Mi piaceva, ma mantenevo le distanze. Come poteva notare una come me, una che non poteva avere figli? Eppure, fu lui a venire da me.

Durante le lunghe serate in ufficio, passava sempre con un pasto caldo. Nelle fredde mattine invernali, lasciava silenziosamente una bustina di tè allo zenzero sulla mia scrivania.
Quando mi chiese di sposarlo, scoppiai a piangere. Confessai la mia verità più dolorosa. Ma lui sorrise semplicemente con tenerezza, mi accarezzò i capelli e sussurrò: “Lo so. Non preoccuparti”.
Nemmeno la sua famiglia lo fece mistero. Era stata sua madre a venire personalmente a farmi la proposta, pianificando attentamente ogni dettaglio.
Pensai che fosse tutto un sogno, una grazia tardiva, un dono di Dio dopo tanta oscurità.
Il giorno del mio matrimonio, vestita di bianco, a braccetto con Rohan, percorsi la navata. Le lacrime mi offuscavano la vista, ma attraverso di esse vedevo la tenerezza dei suoi occhi nella luce dorata.
Quella sera, davanti allo specchio, mi sciolsi i capelli uno a uno. Lui entrò, lasciò il cappotto sulla sedia e si fermò dietro di me, abbracciandomi la vita e appoggiandomi il mento sulla spalla.
“Stanco?” borbottò. Scossi la testa, con il cuore che mi batteva forte. Mi prese la mano e mi condusse al letto.
Poi sollevò le coperte. Mi bloccai.
Lì, profondamente addormentato, giaceva un bambino di circa quattro anni. Aveva le guance rotonde, lunghe ciglia arricciate e stringeva un vecchio orsacchiotto.
Mi voltai verso Rohan e balbettai: “È… è…”
Fece un respiro profondo e mi accarezzò i capelli. “È mio figlio.”
Si sedette accanto a lui, con gli occhi pieni di tenerezza. Mi raccontò che sua madre era la sua ex ragazza, una giovane donna che aveva lasciato la scuola per lavorare quando la sua famiglia era caduta in povertà. Che aveva tenuto segreta la sua gravidanza. Che era morta in un incidente quando il bambino aveva due anni. E che il bambino aveva vissuto con la nonna da allora… finché anche lei non era morta.
Mi guardò con voce rotta: “Mi dispiace di nascondertelo. Ma ho bisogno di te. Lui ha bisogno di una madre. Anch’io ho bisogno di una famiglia completa. Anche se non puoi avere figli, se lo ami, mi basta. Non voglio perderti.”
Le lacrime mi pungevano la pelle. Mi sedetti sul letto e accarezzai i capelli del bambino. Si mosse leggermente e mormorò nel sonno: “Mamma…”
Sentivo il cuore stringersi. Quando guardai Rohan, vidi la paura di andarsene nei suoi occhi.
Ma non potevo. Lo guardai con decisione e annuii: “Sì… d’ora in poi, avrai una madre.”
Mi strinse forte, come se avesse paura che svenissi. Fuori, la luna riempiva la stanza di un bagliore argenteo.
Quella notte, seppi che il mio destino era cambiato. Forse non sarei mai stata una madre di sangue, ma avrei potuto essere una madre d’amore. E per me, questo era abbastanza.
